Ingiustizie fiscali e classi politiche | Rocco Artifoni

Ingiustizie fiscali e classi politiche | Rocco Artifoni

Bergamo,  13 Settembre 2013 | di Rocco Artifoni

Ingiustizie fiscali e classi politiche

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Un lavoratore dipendente o un pensionato attualmente paga le imposte dirette con le aliquote previste dai 5 scaglioni di reddito IRE (dal 23% al 43%). Se il reddito proviene da affitti di immobili con la cedolare secca si paga soltanto il 15% (in precedenza era il 19%). Se il reddito deriva da azioni o obbligazioni la trattenuta è del 20%. Se da titoli di stato si paga un’imposta del 12,5%. Se si tratta di compensi per diritti d’autore l’imponibile è ridotto del 25% o addirittura del 40% sotto i 35 anni. Per una prestazione occasionale la ritenuta è del 20%, come anche per chi usufruisce di regimi agevolati come il cosiddetto “forfettino”. Le più recenti normative, introdotte per agevolare l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, consentono di pagare soltanto il 5% di imposta fino al compimento dei 35 anni d’età per redditi fino a 30.000 euro annui.

È evidente che si tratta di una giungla fiscale iniqua, che favorisce alcune categorie di lavoratori ed alcune tipologie di reddito, ovviamente a scapito delle restanti. Il tutto viene amplificato dal fenomeno dell’evasione, che sicuramente è più rilevante tra i lavoratori autonomi, di conseguenza penalizzati in modo indiscriminato nelle detrazioni d’imposta.

Questo problema di disparità di trattamento fiscale era ben presente già nel dibattito all’Assemblea Costituente, che poi ha portato all’approvazione dell’art. 53 della Costituzione, che recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. L’on. Salvatore Scoca infatti intervenne in Parlamento il 23 maggio 1947 dicendo: “Se esaminiamo la nostra legislazione, vediamo che, accanto alle leggi normali di imposta, si sono inserite troppe eccezioni, troppe norme singolari, le quali creano differenze di trattamento tra classi di cittadini ed altre classi, e tra le varie località del territorio dello Stato, e rendono ardua la stessa conoscenza della materia. Questa delle riduzioni e delle esenzioni è una grave menda della nostra legislazione, ed occorre che sia eliminata per l’avvenire. Chiedo che venga espressamente stabilito che, quando si accorda una esenzione, il movente di questa eccezione alla regola dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alle leggi tributarie sia determinato unicamente da scopi di interesse pubblico”.

A distanza di 66 anni la richiesta di Scoca è rimasta inascoltata. Anzi, le disuguaglianza sono aumentate, in tendenziale contrasto con il dovere di solidarietà economica (art. 2 Costituzione) e con il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena libertà e uguaglianza dei cittadini (art. 3 Costituzione).

Purtroppo, la Costituzione anziché essere attuata spesso è stata ignorata o addirittura tradita da una classe politica non adeguata e poco responsabile, talvolta – va detto – con il consenso del popolo sovrano. Non abbiamo scusanti: non siamo stati all’altezza dei nostri nonni costituenti. Ma il peggio è che oggi all’ordine del giorno della politica non c’è la realizzazione piena del dettato costituzionale, ma la sua revisione affidata a chi ha dimostrato ampiamente di essere il problema e non la soluzione.

Eppure non sarebbe difficile stabilire il semplice principio (per altro già presente persino nello Statuto Albertino) che tutti i redditi debbono essere sommati per formare l’imponibile, da cui sottrarre le spese deducibili e detraibili (che andrebbero ampliate), applicando l’imposta alla capacità contributiva reale.